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ven 6 marzo 2020

AMERICANA - PRIMARIE: Bernie Sanders verrà distrutto all’alba

Sanità e istruzione pubblica, limitazione delle armi da fuoco e tassazione dei ricchi, attacco ai giganti monopolisti delle big-tech, difesa dell’ambiente, lotte intersezionali di razza e genere. Il programma di Sanders è osceno e rivoluzionario, rischia di minare il potere della classe dominante e sconvolgere l’ordine ultra-liberista. Per questo deve essere fatto fuori.

Il minatore di Harlan County, Kentucky, nel cuore dei monti Appalachi, una delle zone più depresse del Paese, prova a fare due calcoli. Con un bastone smuove la terra argillosa davanti a sé. Su Fox News ha sentito che Michael Bloomberg ha speso oltre 600 milioni di dollari per la campagna elettorale.

Avrei dovuto cominciare a lavorare diecimila anni fa, ogni giorno, otto ore al giorno, per avere un decimo di quei soldi. Pensa.

Poi si ricorda che Michael Bloomberg, nonostante tutti quei soldi spesi, nel Super Tuesday elettorale è riuscito a vincere solo nelle Isole Samoa, un’escrescenza di terra emersa al largo dell’Australia, arrivando terzo o quarto in tutti gli altri stati.

Il minatore di Harlan County, Kentucky, nel cuore dei monti Appalachi, una delle zone più depresse del Paese, ride. Ride di gusto.

Ha assistito al tracollo di Michael Bloomberg. Alla più cocente batosta elettorale della storia della democrazia Occidentale.
Ex sindaco repubblicano di New York, massima espressione del quarto potere (mediatico) e del quinto (finanziario), Michael Bloomberg è il nono uomo più ricco del pianeta. Ha un patrimonio personale stimato in 62 miliardi di dollari: più di sei volte tanto quello di tutti i presidenti degli Stati Uniti messi insieme.

Per lui, investire oltre 600 milioni in pubblicità elettorale ha avuto lo stesso prezzo che ha una lattina di Coca-Cola per il minatore di Harlan County, Kentucky. Ma a lui, quella bevanda dolciastra e gassata, è andata di traverso.

Pensava di conquistare il mondo, e invece si è preso un’isoletta tropicale la cui squadra di calcio durante le qualificazioni ai Mondiali del 2002 ha perso 31-0 contro l’Australia. Una débâcle senza precedenti. Per una partita di qualificazioni mondiali. Per la corsa alle presidenziali americane.

Per mesi sono stati incensati i suoi strateghi, Bill Knapp e Jimmy Siegel. La massiccia campagna pubblicitaria, gli spot televisivi, i meme, il linguaggio diretto, la costruzione del vincente, il racconto del self-made man cui avrebbe potuto ambire anche il minatore di Harlan County, la decisione di saltare i primi quattro staterelli e presentarsi direttamente nel decisivo Super Tuesday.

Per mesi si è raccontato che Michael Bloomberg sarebbe stato, se non il prossimo presidente degli Stati Uniti di America, l’unico in grado di sconfiggere Donald Trump. Essendone la bella copia. E invece no, era quella brutta.

Come ha scritto un analista americano: «In una sua conferenza stampa, Trump sarà sempre il protagonista assoluto. Mentre Bloomberg ha così poco carisma che la sua performance rischia di essere surclassata dall’interprete della lingua dei segni che divide il palco con lui».

I risultati del super martedì elettorale, dove si votava in 14 stati, e alcuni dei quali – come la California – capaci di offrire da soli il 10% dei circa duemila delegati che alla convention di luglio a Milwaukee dovranno eleggere lo sfidante democratico di Donald Trump, hanno sancito un sostanziale pareggio tra gli altri due sfidanti: Joe Biden e Bernie Sanders.
Biden conta ora più di 590 delegati, Sanders circa 530. I conteggi non sono ancora finiti. Ora saranno decisivi i voti in Michigan, poi in Ohio e a fine aprile a New York. Solo allora si saprà chi ha vinto.

Anche se da subito si sapeva chi avrebbe perso: Bernie Sanders.

Come ha scritto di recente anche il «New York Times», intervistando un centinaio di delegati e sentendoli ammettere che loro a Milwaukee non avrebbero mai votato Sanders, nel Partito Democratico sono disposti a tutto pur di fermare il senatore del Vermont. Anche a uccidere loro stessi.

È il paradosso descritto perfettamente nel 2007 da Jon Schwartz, ora giornalista a The Intercept, nel saggio: I Democratici e la legge ferrea delle istituzioni.

Parafrasando Goethe, Schwartz scriveva:
Le persone che lavorano nelle istituzioni opereranno sempre per mantenere intatto il proprio potere all’interno dell’istituzione invece del potere dell’istituzione in sé. Quindi saranno molto più disposte a indebolire l’istituzione per cui lavorano, rimanendone al potere, che non a rafforzare l’istituzione perdendone il potere al suo interno.

Per questo, nonostante Sanders abbia trionfato in California e continui la sua corsa testa a testa con Biden, che ha invero rimontato quando sembrava quasi sconfitto, e nonostante il miliardario Bloomberg, entrato in gara per affossare Sanders, ne sia uscito affossato da Sanders stesso, all’interno dei Democrats e sulla stampa liberal, anche europea, la linea è una sola: nel Super Tuesday ha vinto Biden.

Perché una presidenza Sanders equivarrebbe a una cosa oscena, mai vista, inaccettabile. Una rivoluzione semiotica che nessuno ha mai osato prima: sanità e istruzione pubblica, limitazione delle armi da fuoco e tassazione dei ricchi, attacco ai giganti monopolisti delle big-tech e difesa dell’ambiente. Una presidenza Biden raffigura invece la continuità e la moderazione. Non disturba e non mette in disordine.

Con Joe Biden chi detiene il potere nelle istituzioni politiche, economiche, giuridiche e dei media, continuerà a detenerlo. Anche e soprattutto se l’ex vicepresidente di Obama non dovesse poi sconfiggere Trump, il prossimo novembre. Ma, come ha scritto Schwartz, a loro interessa solo quello.

È emblematica, nella sua idiozia, la metafora scelta da John F. Harris, fondatore del prestigioso magazine Politico: «Joe Biden ha scavato due fosse nel Super Tuesday, ognuna con un nome bene in vista. Bernie Sanders e Donald Trump stanno entrambi osservando la loro tomba politica».

Se Biden ha scavato qualcosa martedì – dopo gli endorsement texani di Pete Buttigieg e Beto O’Rourke, e prima di quello di Bloomberg che si è ritirato dalla corsa dicendo che avrebbe appoggiato proprio l’ex vicepresidente ai tempi di Obama –, è stata la tomba della democrazia. E forse del Partito Democratico.

Ha dimostrato come il potere esiste per mantenere se stesso. La politica per servire lo status quo.
Come nel Regno Unito per lunghi mesi il peggior nemico di Jeremy Corbyn sono stati il Labour Party e i media cosiddetti di sinistra, che hanno letteralmente consegnato il paese alla Brexit, così la coalizione che appoggia Biden, dal miliardario sconfitto all’ex presidente – non a caso si fanno sempre più insistenti le voci di Michelle Obama in ticket con Biden per la vice-presidenza – ha un solo nemico: non Donald Trump, ma Bernie Sanders.

Lo spiega molto bene Marshall Auerback su The Nation, quando racconta come i democratici americani dovrebbero cominciare a guardare alla vittoria di Boris Johnson e non alla sconfitta di Jeremy Corbyn.

Boris Jonhson, scrive Auerback, ha vinto nell’ex cintura rossa working class dell’Inghilterra del Nord non certo perché è il nuovo Trump, anzi. In politica, sui temi della sanità, dell’istruzione, delle tasse, dello sviluppo e del welfare, è molto più a sinistra non solo di Trump ma di tutti i candidati del Partito Democratico americano. Sanders escluso.

Come Corbyn era l’unico a parlare all’Andy Capp che ormai non abita più in UK, Sanders è l’unico che può parlare con il minatore di Harlan County. Ma se tutta la potenza di fuoco dell’istituzione è volta a demolire l’outsider per conservare sé stessa, entrambi decidono che è meglio votare a destra.

Non è vero che Joe Biden è uscito trionfante dal Super Tuesday, è solo un wishful thinking del circo mediatico democratico, come ha spiegato la deputata Alexandria Ocasio-Cortez.
Ma è anche vero che bisogna capire dove ha sbagliato Sanders. Tio Bernie, come lo chiamano lì, ha trionfato nella roccaforte progressista, giovane e latina della California. In generale vince tra la working class, gli ispanici e soprattutto i giovani. Perde tra gli elettori bianchi più anziani, gli abitanti dei sobborghi e soprattutto tra gli afroamericani.

Eppure, dopo la sconfitta con Hilary Clinton del 2016, avvenuta soprattutto per il voto afro che ha premiato il suo avversario, Sanders si era mosso con largo anticipo. Oltre a Cornel West, filosofo, studioso delle lotte intersezionali tra razza, genere e classe sociale, e attivista radicale piuttosto famoso – appare anche in Matrix – il senatore del Vermont per questa campagna si è affidato anche a Darrick Hamilton.

Professore universitario, Darrick Hamilton è il pioniere della stratification economics, che offre risposte strutturali e non comportamentali all’ineguaglianza economica. Sostiene che il razzismo non è un comportamento o una malattia sociale, un qualcosa di irrazionale, ma un piano discriminatorio assolutamente voluto e razionale, messo in atto dalla classe dominante per mantenere i suoi privilegi.

Da due anni ha affiancato Sanders nella cabina di regia della campagna elettorale proprio per limare le sue uscite tipiche da wasp, per cui il razzismo va combattuto come fosse sintomo di una decadenza dei costumi e non una precisa strategia politica di classe. Gli ha imposto, insieme a Cornel West, un discorso intersezionale. Quello che è probabilmente mancato a Corbyn.
Ma nonostante questo, l’elettorato afroamericano ha continuato a preferirgli Biden. Così come quattro anni fa gli aveva preferito Hilary Clinton. Entrambi appoggiati più o meno esplicitamente da Obama.

La stessa sinistra del partito, rappresentata da Elisabeth Warren, si è sempre rifiutata di sostenerlo. La senatrice, arrivata addirittura terza nel suo Massachusetts, non solo non si è ritirata prima del Super Tuesday per cedere i suoi voti a Sanders, ma lo ha fatto dopo e adesso non è detto che lo endorserà.

Perché il programma di Sanders è osceno. Crede che ciascuna persona debba avere le stesse possibilità e abbia diritto a una vita dignitosa. E per questo rischia di vincere, facendo però sparire tutti quelli che tra i Democrats si sono adagiati sulla fallimentare strada ultraliberista impostata da Clinton e proseguita da Obama.

Rischia di rafforzare l’istituzione e non chi, al suo interno, ne detiene il potere. E per questo sarà fatto fuori. Kill Sanders, come Corbyn, gli absolute boys.

Michigan, Ohio e tra un mese New York, saranno decisivi.

Il minatore di Harlan County, Kentucky, nel cuore dei monti Appalachi, una delle zone più depresse del Paese, osserva questa lotta interna al Partito Democratico. Aspetta di capire se avranno il coraggio di proporgli un sogno, la socialdemocrazia di Bernie Sanders, o se si accontenteranno di promettergli lo status quo, la debolezza di Biden.

In fondo, l’economia gira ancora. Il paese si è ripreso meglio di altri dalla crisi dei subprime e il sistema sembra di restare in piedi alla grande, pensa. O comunque finge bene. A questo punto tanto vale fare come Andy Capp e votare Trump.

Il minatore di Harlan County riprende in mano il bastone e smuove la terra argillosa davanti a sé. Poi disegna i volti di Michael Bloomberg, Joe Biden, Pete Buttigieg ed Elisabeth Warren. Li sovrappone con la mente. Ride. Il risultato è la faccia di Donald Trump.
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